venerdì 4 maggio 2007

ASTUTILLO MALGIOGLIO


Per chi il calcio lo ricorda bene Malgioglio è stato, per diversi anni, la riserva di Zenga nell' Inter scudettata. Arrivò a Milano con la carriera seriamente compromessa a causa di un episodio che merita di essere ricordato. Malgioglio giocava nella Lazio (tra l'altro proveniente dalla Roma dove aveva fatto due stagioni) e, al di fuori del calcio, seguiva persone portatori di handicap.

Accusato di scarso impegno in campo, alcuni beoti laziali gli dedicarono uno striscione che recitava testualmente: "Tornatene dai tuoi mostri". Il portiere . al termine della partita contro il Vicenza, uscendo dal campo si tolse la maglia gettandola a terra e sputandogli sopra. Questo post è quindi un omaggio al coraggio di un uomo cresciuto calcisticamente nella Primavera del Bologna (con cui giocò un paio d'anni dal 1975 al 1977) e di cui riporto una intervista del tempo.

BRUNO PESAOLA

A metà degli anni '70 gli allenatori di calcio avevano ancora dei soprannomi. C'erano infatti il Patron Nereo Rocco e il suo palla avanti e pedalare; il filosofo Manlio Scopigno che vinse lo scudetto del Cagliari con Albertosi e Giggi Riva; il Mago Helenio Herrera e il Mago di Turi il mitico Oronzo Pugliese.


A Bologna c'era Bruno Pesaola detto "Il Petisso".
Io me lo ricordo in tuta blu mentre calcia cross per Savoldi durante un allenamento e poi mettersi a bordo campo, accendersi una sigaretta e chiaccherare con tifosi e giornalisti. Ma preferisco affidare un ritratto del personaggio ad un articolo scritto da Tony Damascelli, articolo secondo me straordinario per come descrive umanamente questo indimenticabile allenatore de rossoblù, che regalò anche diverse soddisfazioni al Bologna (Coppa Italia).
Buona lettura.
L a voce del piccoletto è appena un fiato, quasi un rantolo. All’inizio. Gli anni sono quelli che sono, per la precisione ottanta, bellissimi comunque. La voce, dopo una, due, dieci parole si stiracchia e si trasforma nella cantilena di sempre, furbastra, «estronsa». Bruno Pesaola è il piccoletto, traduzione nostrana di un più bizzarro «El petisso». Il fatto deriva dai suoi centimetri di statura, gli furono utili per fintare, dribblare e andare al cross. Poi gli servirono per nascondersi nel canneto, cioè in panchina, faceva finta, agitando il braccio sinistro, di invitare i suoi giocatori a portarsi all’attacco, ma con il braccio destro, tenuto basso, li minacciava di stare al domicilio di difesa. Alla vigilia di una partita del Bologna con l’Atalanta un cronista bergamasco gli chiese che tipo di tattica avrebbe adottato: «E sciocheremo alatàco, come seempre», spiegò il piccoletto di Baires. Il giorno appresso, i bolognesi si barricarono nella propria metà campo fino all’ultimo secondo per stabilire lo 0-0. Il cronista di cui sopra, avvampato nel volto, scaricò la sua rabbia sul Petisso: «Lei ci ha preso in giro, lei è venuto a Bergamo pensando che siamo stupidi, spieghi perchè allora il Bologna ha giocato in difesa, al contrario di quello che lei aveva detto!». Pesaola allargando la bocca a fetta di cocomero replicò: «E se vede che la Etalanta ci ha rubato la idea».Questo era, questo è ancora, a parte i graffi dell’età, i dolori che lo hanno costretto a rinunziare ai quotidiani quattro pacchetti di sigarette «soltanto perchè costano de più, etrooppo», al bicchiere di whisky «l’ho innaffiato», alle nottate al tavolo de la Sacrestia, con il golfo di Napoli alle spalle, l’acqua di mare davanti alla quale una notte disse a Josè e Omar, al secolo Altafini e Sivori: «Questa è come una vacca con tre tette, prendetene una, io mi tengo la più piccola e cercate di non litigare». Mettere insieme un argentino con la capa grossa, cabezon, e un brasiliano coniglio e furbo («avete mai visto un centravanti che non si sia mai fatto male nella sua carriera?»), metterli insieme non fu impresa facile ma il piccoletto ci riuscì, riuscì a vincere scudetto e coppa Italia, a Firenze, a Napoli, fece grandi cose con il Bologna, città che un po’ gli apparteneva, come Napoli del resto, per via di quel gusto per l’ironia e il perfido sarcasmo. Quando il Bologna le buscava, Pesaola correva alla porta dello stanzone dello spogliatoio, appoggiandosi con una mano allo stipite opposto, creando una specie di arco basso sotto il quale per forza i calciatori sarebbero passati e qui li apostrofava: «E complimèèènti Bulgarelli, e complimèèènti Perani e complimèèènti Fedele». I flagellati chinavano il capo, cornuti e mazziati. Questo era Bruno Pesaola, uomo di football senza essere stato un campione, venuto dall’Argentina («Avevo 21 anni») dove i suoi parenti erano emigrati da Montelupone, terra di Macerata. Suo padre era un calzolaio, di nome faceva Gaetano, sua madre di La Coruna portava un nome dolce, Inocencia; l’unione lo rese «oriundo». Ai contemporanei che bevono il calcio in tivvù segnalo che il Petisso ha vissuto con Piola e Schiaffino, Valentino Mazzola e Di Stefano, Pelè e Maradona, e dunque quando lo senti parlare, mentre i suoi occhi roteano e sono olive nerissime, rivedi dribbling e gol, colpi di testa e tacchetti sulle gambe come quelli di Gimona, una brava persona del Palermo che ruppe tibia e perone al Bruno costringendolo a mollare la Roma che lo aveva accolto dall’Argentina. Erano anni di dolori. Pesaola ricorda che per lui, come per mille altri argentini e sudamericani del tempo, l’Italia era il paese della povertà: «Oggi la realtà si è invertita».
Fece il viaggio al contrario con mille scali, si assicurò lo stipendio della Roma («120mila al mese più i premi, tutti esentasse, il salario di un operaio specializzato era di 30mila») in anticipo per versarlo alla madre perchè finisse di pagare la casa, dopo che Gaetano se ne era andato al Padre Eterno. Quando papà Gaetano venne raggiunto da Ornella, moglie del Bruno, cambiò davvero l’esistenza di Pesaola, solo e solitario, con le sue mille sigarette, il whisky, il golfo di Napoli, l’unica voce amica di Roberto Diego, figlio e filosofo e regista. Ottanta anni non sono stati inutili, il Petisso agita il braccio sinistro, invita ad
andare all’attacco, con il destro aspetta di chiudere la porta: «Il Padre Eterno prima o poi mi convocherà. Ma mica soltanto il sottoscritto». Sento il profumo di tabacco e di whisky.
Tony Damascelli

Per l' esattezza Pesaola fece l'allenatore del Bologna per 4 anni consecutivi ottenendo due 6° posti, un 7, un 8 e una Coppa Italia Dopo una pausa a Napoli ritornò sotto le due torri per due anni ma con squadra un po' più scarse.

lunedì 23 aprile 2007

Tazio Roversi



Qualcuno sà dirmi per quanti anni Tazio fù indentificato come il terzino rossoblù ? 10, 100, 1.000 forse ? Non è impossibile e nemmeno improbabile perchè la sua capigliatura bionda, sempre uguale nel corso degli anni, la ricordo correre sulla fascia alla sinistra del portiere, a prendere la palla all'attaccante avversario prima che fosse troppo tardi, ad avanzare appoggiando al centrocampo o, nei momenti di patema, a buttarla là davanti alla viva il parroco. Nelle formazioni che noi cinni recitavamo meglio di qualsiasi poesia che la scuola di allora ci imponeva a memoria, cambiava l'inizio (Vavassori, Adani, Buso Battara...) , cambiava un altro fattore (Fedele, Rimbano...) ma poi c'era Roversi.
L'uomo che aveva lo stesso nome di battesimo di Nuvolari, simbolo di estro e velocità, e che però correva il giusto arrivando comunque sempre puntuale al contrasto. Roversi, punto fisso di ogni formazione di quel mitico Bologna e gemello di Cresci, altro pilastro dell'epoca e ultime barriere tra la palla e il portiere di turno.
Roversi che sembrava un tedesco, Roversi che faceva gl scherzi a noi raccatapalle durante gli allenamenti, Roversi che entrava duro sull'avversario e poi, a sorpresa, si faceva fotografare con il figlioletto in braccio.
Roversi e quando i terzini erano terzini...




giovedì 19 aprile 2007

GIUSEPPE VAVASSORI


Quando in cortile ti mettevano in porta voleva dire che eri uno sfigato.
Io che avevo i piedi quadri e i miei calci finivano spesso in cortili vicini, sui vetri dei piani rialzati e dovunque tranne dove dovevano andare, in porta ci stavo spesso.
Ma non mi interessava più di tanto , perchè, prima di Buso, il Bologna aveva Vavassori.
Era il tempo che i portieri vestivano di nero o, al massimo, di grigio. e ricordo che nel Bologna c'era questo personaggio in nero che se ne stava tra i pali e poi, magicamente, volava all'incrocio e dava uno schiaffetto alla palla buttandola oltre alla traversa.
Vavassori la cui figurina ondeggiava tra il Bologna e il Catania con Rino Rado e facendomi credere (anche per via dei colori) che ci fosse una specie di gemellaggio tra le due città.
Vavassori che uno dei "grandi" del cortile, sfegatato milanista, mi disse: se dovessi cambiare Cudicini lo cambierei solo con il vostro.
Vavassori, portiere in una era in cui i portieri erano un Zoff napoletano, Albertosi, Vieri, Superchi, Castellini, Pizzaballa e che avevano numeri 12 come Bordon poi titolare della Nazionale. Vavssori in una era di portieri dove potevi uscire senza il dogma del rigore e dove parare con ilpiede era una onta come un gol.
Vavssori che andava negli angoli alti con la leggerezza che rividi poi in un altro sport ad un certo Jordan-
Vavssori che in una interivsta alle vecchie glorie rossoblù confessò il suo cruccio di carriera: non essere mai risucito a parare un rigore.

FRANCO LIGUORI

Su testo del collega, amico, complice di questo Blog: Paolo Tattini
(grande Maesro di Filosfia Zannona)



Ero un bambino di 7-8 anni quando Franco Liguori giocava nel Bologna, allora tutti i giocatori rossoblù erano per me degli eroi, dei personaggi eccezionali, già solo la figurina Panini di un giocatore del Bologna mi dava una piccola emozione.




Ricordo che allora si parlava della sua vicenda come di una delle più tristi della storia dei giocatori rossoblù. Qualche tempo fa una bellissima puntata di “Sfide” ha raccontato quanto gli successe, ho così rinfrescato i miei ricordi di bambino e ancor di più pensando a quanto gli è accaduto sento un forte senso di ingiustizia e sfortuna che ancora oggi mi colpisce. Ho così fatto qualche ricerca e voglio così riprendere e rivivere quanto successe a questo giocatore che ebbe da madre natura tanto talento ma anche tanta sfortuna. Questa è il racconto della sua

storia:

Liguori si era messo in luce giovanissimo nella Ternana. Tre anni di C, poi la promozione de rossoverdi fra i cadetti. Non sono pochi a mettere gli occhi su quel talento tuttofare, uno che in campo potrebbe occupare ogni posizione. "Tanto che iniziai come centravanti. In seguito venni impiegato anche come ala destra. Fu poi Viciani, a Terni, a sistemarmi in mezzo al campo. Anche se all'occorrenza mi schierava terzino, non come marcatore, sia chiaro, bensì come fluidificante. Una novità assoluta per quegli anni". Nel 1970-71 Franco Liguori è un giocatore si serie A: indossa la prestigiosa maglia rossoblù ed appena arrivato diventa uno dei punti di forza della squadra guidata da Edmondo Fabbri. Il Bologna si aggiudica la Coppa di Lega Italo-Inglese battendo in finale il Manchester City e fin dalle prime giornate del campionato si dimostra una buona formazione e comincia ad inanellare risultati positivi. Buona parte del merito spetta proprio a Franco Liguori, giovane stantuffo dai piedi buoni, uno che garantisce i rifornimenti al cervello Bulgarelli ma non disdegna la sgroppata, il lancio, la conclusione, dotato anche di uno bello stile.







10 gennaio 1971: A San Siro si gioca Milan-Bologna. I rossoneri, primi in classifica, sembrano avviati a ripetere lo strepitoso torneo del 1968, quello che aprirà loro le porte alla conquista della Coppa dei Campioni. Anche gli emiliani navigano nelle zone alte della classifica, si tratta di uno scontro al vertice. Dopo un quarto d'ora la gara di San Siro è ancora ferma sullo 0-0: Liguori scende verso la trequarti, la sua inconfondibile falcata procede verso l'area milanista. Quando ecco irrompere sulla scena il polpaccio teso di Romeo Benetti, a chiudere sull'avversario alla "o la va o la spacca". La spacca: mentre il pallone viaggia rasoterra, l'intervento di Benetti è incomprensibile, assurdo, violento, crudele. Tacchetti che affondano nel ginocchio di Liguori, infischiandosene del pallone, l'arto del bolognese subisce una torsione anomala, incongrua. Tutto salta, tutto si fa buio: "Il ginocchio rimase attaccato a un solo legamento" ricorda Liguori. "Fu un intervento inconcepibile: era chiaro, guardando le immagini, che Benetti doveva fermarmi, bisognava impedirmi di fare il bello e il cattivo tempo”.
Per Liguori si schiudono le porte di una sala operatoria dell'ospedale di Lione. Il famoso professor Trillat, lo stesso che pochi mesi prima aveva dovuto rimettere in piedi Gigi Riva, ricompone il ginocchio del talento bolognese. Il quale però, nel frattempo, deve rinviare l'appuntamento con la Nazionale: "Valcareggi mi aveva contattato prima della gara col Milan: mi voleva in azzurro nell'amichevole di febbraio a Cagliari contro la Spagna..."
Per Franco Liguori, venticinquenne napoletano, è l'inizio di un calvario. "La domenica prima di giocare a San Siro, il 3 gennaio a Bologna, subii un infortunio alla caviglia 'grazie' al veronese Mascalaito che mi scaraventò addirittura contro i tabelloni pubblicitari. Fecero di tutto per rimettermi in piedi in vista della partitissima. E ci riuscirono. Purtroppo."Come si comportò Benetti? "Venne a trovarmi in clinica a Lione, insieme al capitano Rivera. Mi è capitato di incontrarlo ancora in qualche trasmissione. Mi ha confessato che il mio infortunio gli ha lasciato il segno per dieci anni. 'Sapessi a me' gli ho risposto".
Poi l'infortunio, la lenta riabilitazione: "Impiegai invece un anno esatto prima di calcare ancora un terreno di gioco. Per sistemarmi in panchina". Ma in quel Bologna 1971-72 Liguori, non ancora in perfetta forma, giocherà solo quattro partite. "Il peggio però venne nel 1972-73. Stavo bene, ero sicuro di essere tornato quello di una volta. Il nuovo allenatore Pesaola, però, non la pensava allo stesso modo. Mi fece giocare solo sette partite, senza mai fornirmi spiegazioni. Fu durissima. E devo ringraziare i vecchi, primo fra tutti Bulgarelli, che fecero di tutto per rincuorarmi”. Liguori in ogni caso capisce che in quel Bologna, non tira più l'aria giusta per lui: era arrivato giovane talento, pieno di energie e si ritrova a 27 anni, con il tempo che scorre e quel Benetti che, intanto, ha preso il "suo" posto in Nazionale.



Bisogna cambiare aria, e il cambiamento gli giova: Liguori è ceduto in prestito al neopromosso Foggia, l’allenatore che gli dà piena fiducia. "Disputai 26 partite in quella stagione. Certo il Foggia era un'altra cosa, tanto che alla fine retrocedette in B, ma io ero soddisfatto. Avevo dimostrato che ero ancora un calciatore, che il mio fisico rispondeva. Ero tornato quello di prima, pronto a rigiocare nel Bologna che mi aspettava a fine stagione."







Invece? "Invece andò diversamente. La società aveva ormai provveduto ad acquistare Maselli quale mio 'sostituto', mentre in panchina sedeva sempre Pesaola. Era chiaro che non c'era spazio. A novembre mi cedettero al Brindisi, in serie B, ma non ero disposto, dopo i sacrifici che avevo fatto a inizio carriera e durante il lungo periodo della riabilitazione, ad accettare un declassamento che non trovava riscontri tecnici. Così, al termine di quella stagione in Puglia, decisi di voltare ancora pagina: restavo nel calcio, avrei fatto l'allenatore."
Il legame tra Franco Liguori ed il Bologna non si esaurisce qui, sarà infatti lui l’allenatore di quel Bologna che per la prima volta dopo 73 anni nella storia scende nella derelitta serie B!!! Il campionato 1981-82 fu quello successivo a quello del bel Bologna di Gigi Radice che, nonostante il – 5 portò il Bologna al 7° posto. L’anno dopo la squadra fu affidata a Tarcisio Burgnich, ma subisce un indebolimento nell’organico, il presidente Fabbretti ha venduto i giocatori migliori (Dossena e Bachlechner), e la squadra lotta tra nelle ultime posizioni. A marzo si decide di affidare la squadra proprio a Franco Liguori che al tempo guidava la squadra giovanile. Dopo risultanti alterni, la squadra si trovò a giocarsi la salvezza nelle ultime giornate. Alla penultima di campionato ero allo stadio, e ricordo che mi esaltai a vedere il Bologna guidato da Fiorini battere per 3-1 all’Inter, la salvezza sembrava possibile. Non fu così: all’ultima giornata il Bologna perse per 2-1 ad Ascoli e così venne sancita la sua prima retrocessione. La carriera di allenatore di Franco Liguori venne così compromessa in modo irreparabile.







Aggiungo il Suo autografo originale. Lo presi al solito campo della Virtus in Via Valeriani e, ancora oggi ricordo la sua espressione tra lo stupito e il triste.
Perchè quando mi fece l'autografo, Franco era ai brodi del campo.
In borghese.
Dovunque tu sia... in bocca al lupo.




















lunedì 16 aprile 2007

PIERINO GHETTI

Tutti lo consideravano ancora un cinno. In effetti esorì giovanissimo e fu subito mito nel cuore di noi, che cinni lo eravamo sul serio ed eravamo cinni rossoblù.
Il fatto è che era un giocatore di Bologna. E per noi bolognesi che da secoli in mezzo alla pianura padana abbiamo nel DNA migliaia di eserciti che passavano di qua, era un fatto importante che un ragazzo delle nostre parti vestisse la casacca rossoblù.
In realtà non veniva proprio da Bologna, ma da Argelato. Paese perso in mezzo alla campagna e, allora, caratterizzato dalle alte torri di ferro del zuccherificio.
Ma se era uno dei nostri un certo Giacomino "Dottore" Bulgarelli che veniva da anche più lontano, , vuoi non adottare Pierino ?


A differenza del "Dottore" che giocava con goniometro e teodolite, Pierino ci metteva il fisico campagnolo e due piedi creati da qualche dio amante del pallone.
In campo metteva tre polmoni e li usava tutti.
Si smarcava dell'avversario (si giocava rigorosamente a uomo), prendeva il pallone, si innamorava dei dribbling e tirava pere di potenza bestiale.
Un cinno che che si prese i complimenti di un certo Burnich (l'uomo che marcava Pascutti e Pelè), che ci fece guardare le cartine stradali per vedere dove cavolo fosse Argelato e che ci rese orgogliosi della campagna fuori Bologna e della sua nebbia e dei suoi uomini.
Pierino Ghetti è oggi Presidente della Polisportiva Argelatese.
A lui, a distanza di anni, un grazie da parte di un tifoso rossoblù e di un cinno che voleva sognare e sapere dove fosse Argelato.

domenica 15 aprile 2007

EZIO

Fino ad una decina di anni fà quando entravi in un bar c'era un modo molto semplice per verificare la "Bolognesità" del luogo. Bastava alzare la testa e dietro al banco, in alto al posto di onore, c'era la foto in bianco e nero del goal di Pascutti all'Inter, quella in tuffo, di testa, con Burniche che allunga piedi e mani per contrastarlo. Invano.

In occasione della presentazione del libro che mio padre, Giuseppe Quercioli, ha voluto dedicare al suo amico Ezio, questi protestò ironicamente su quella foto.

"Sembra che abbia fatto solo quel goal" commentò "Bello ma ce ne furono di migliori"

Uno di questi fù senz'altro quello raffigurato nella foto qua sotto, solitamente attribuito ad una aprtita in casa contro la Roma (ma qualcuno dice che era il Mantova).

Su un cross si buttano in tuffo: un difensore e Nielsen mancando entrambi il pallone.

Lo prende Pascutti, di spalle alla porta e, con una torsione quasi inumana la butta dentro.

Senza parole...


venerdì 13 aprile 2007

Beppe goal



Bulgarelli, Buso, Pecci, Ghetti, Cresci e Roversi erano i nomi che più ti davi in cortile a seconda delle caratteristiche di gioco che avevi. Ma uno solo voleva essere Beppe Goal. Perchè per noi cinni, Savoldi era solo un soprannome, che il vero, unico, nome era Beppe Goal.



Beppe faceva goal di testa, di piede, di rapina e su rigore (cosa che non sbagliava praticamente mai).
















Beppe aveva il gioco aereo perchè aveva giocato a basket (e questo seduceva enormemente noi cinni sedotti da Gary Schull e/o John Fultz).
Ma Beppe era sopratutto un simbolo.
Di cosa ? forse di una Bologna che si sentiva diversa dal resto del mondo e che, da questa diversità si sentiva penalizzata.











Perchè Beppe non lo fermava nessuno nè con i piedi e nè con le mani. E quando non lofermavano, allora lo buttavano giù... e l'arbitro lasciava proseguire...
Allora la curva si incazzava e fischiava e dava dei nomi all'arbitro e i più anziani scuotevano la testa e dicevano: "Lè sampair la solita storia! Chissà parchè...al Bùlagna an a brisa di sant in paradis !".
E si capiva che volevano buttarla in politica ma che si trattenevano.

In realtà questa frustazione la vivevo, nel mio piccolo anche io.















Beppe segnava, andava in Tv perchè unico giocatore a cui un racattapalle rubò il goal (Ascoli Bologna non ricordo che anno), ma in Nazionale non ci andava mai. Poco importava che c'erano centravanti come Boninsegna (per me uno dei migliori 5 centravanti nella storia de calcio italiano del dopoguerra), Anastasi , Pierino Prati e Chinaglia.
A beppe la Nazionale era dovuta.
E noi spingevamo anche criticandolo nei suoi (rari) momenti di crisi , che la curva ha sempre amato i suoi miti e, come in ogni grande amore, a volte si è un po' conflittuali per le grandi aspettative che si hanno.
Ma Beppe rimase solo un grandissimo dentro il perimetro bolognese che anche quando vinse la classifica dei capocannonieri la dovette dividere con Giggi Riva e Prati.
Andò poi sulle pagine dei giornali per il trasferimento a Napoli che scandalizzò per la cifra di 1.000.000 (record di allora). Per avere inciso un 45 giri che si chiamava Uhè ! (imitando Chinaglia e il suo I'm Football crazy) e che da qualche parte devo avere ancora) , tornò a Bologna e finì nello scandalo calcio scommesse.
Quando ho letto il libro di Petrini che parlava dell'argomento, ho saltato volutamente tutte le righe che parlavano di Beppe.
Non mi interessa sapere che uomo era.
Mi basta il ricordo di un dribbling contro il marciapede, di un rimpallo favorevole, di una zuccata fortunata e di un pallone che rotola oltre un cancello. E della gioia che accompagnava il mio grido in cortile: "BEPPE GOAL!"



























mercoledì 11 aprile 2007

Bob Vieri





















Bob Vieri era il nostro George Best, Meroni, Garrincha e quant'altro. Purtroppo (come forse suo figlio) amava più la gnocca del Bologna. Veniva dalla Juve e, dicevano che da Torino ci mandavano giocatori fantastici ma che non avevano la testa. Io, allora, non ci credevo, poi vidi Marrocchino che era capace di 6 dribbling in 3 metri quadri e poi si metteva sulla fascia opposta per stare all' ombra... Vieri era così.

Capace di fare impazzire un Burnich.

Capace di essere definito il primo Baggio italiano.

Capace di essere espulso nella partita più importante della stagione.

Questo era Vieri... il calcio che rimpiangiamo...

















Eraldo Pecci







Non sò se è più interessante la faccia di Civolani (già Civ) o quella di Eraldo, allora enfant prodige di un Bologna innamoratissimo di un centrocampista di nome Giacomo Bulgarelli.
Leggete le sue note biografiche qui sotto (prese dal sito Fede Rossoblù.com) e non chiederete mai più cosa vuol dire la frase Campione dentro e fuori dal campo.. Voglio aggiungere un Bologna Parma presentato dalla stampa

come la sfida Maifredi- Scala. Una serie B che vale una Champion. Eraldo fatica a rientrare ma sulla rimessa del portiere si butta in scivolata, poco fuori dell'area di rigore, e dà un assist a Marronaro che non se l'aspetta e non sfrutta. Tutto questo ad una età dove al massimo giochi a calcetto con gli amici... non porti il Bologna in serie A.
Eraldo Pecci cresce nel vivaio del Bologna e si rivela, fin dalle prime apparizioni in prima squadra, un regista dotato di grande abilità tecnica, notevole visione di gioco, acume tattico e di una spiccata personalità che lo portano a dirigere con naturalezza le operazioni in campo.
Pecci ha un carattere allegro e guascone, che lo spinge a dire battutacce a raffica durante gli allenamenti, ed in risposta ad una di queste, l'allenatore Pesaola, nel suo caratteristico accento argentino-napoletano, con un divertente gioco di parole lo definisce un "estronso".
L'esordio in serie A (a 18 anni) Eraldo lo fa addirittura contro la Juventus a Torino (insieme all'altro giovanotto di belle speranze Franco Colomba), ma è tutt'altro che intimorito. Dapprima causa il rigore per la Juve con un intervento su Bettega, poi si riscatta subendo fallo da Salvadore e procurandosi il rigore del pareggio. Oltre ad essere il protagonista dei momenti decisivi della partita, Pecci si prende anche un cartellino giallo dall'arbitro Casarin.
Eraldo risulta decisivo anche nella conquista della coppa Italia 1973/74, infilando l'ultimo e risolutivo rigore di spareggio nella finale contro il Palermo.
Il regista rossoblù nel campionato successivo scende in campo 24 volte, e le sue ottime prestazioni destano gli appetiti di mercato del Torino (all'epoca tra le squadre più importanti d'Italia). Il presidente del Bologna Conti fiuta l'affare e lo cede ai granata, dicendo (per giustificarsi coi tifosi) che Pecci, nonostante la giovane età, è affetto da un mal di schiena cronico che ne metterebbe in serio pericolo la carriera.
Ovviamente l'affermazione di Conti viene presto smentita dai fatti, visto che Eraldo è tra i protagonisti del Torino che vince il suo settimo Scudetto nel 1975/76 e milita in serie A (oltre che tra le fila granata anche con la Fiorentina, con la quale sfiora uno scudetto nel 1981/82, e il Napoli) fino al 1986, collezionando solo 6 presenze in Nazionale perchè non accetta di fare la riserva e chiede a Bearzot di non convocarlo più!
Proprio nella stagione che porterà per la prima volta il Napoli a vincere il tricolore, Pecci (dopo una lunga e laboriosa trattativa) torna nel Bologna per provare a riportarlo nella massima serie.
A 31 anni Eraldo è ancora un califfo del centrocampo ed in serie B è un giocatore che fa la differenza. Purtroppo quel Bologna non è all'altezza del suo regista e Pecci si riduce a predicare nel deserto.
La stagione successiva Pecci guida (da vero allenatore in campo) i giovani di talento voluti da Maifredi alla conquista di una trionfale promozione, innescando con i suoi lanci sapienti il gioco offensivo rossoblù e mandando in orbita il famoso calcio-champagne dell'allenatore Maifredi.
Altrettanto famosa è la paura che "Piedone" prova a salire su di un mezzo volante, che lo costringe a massacranti viaggi in auto nelle trasferte più lunghe.
In serie A il carisma e l'esperienza del capitano del Bologna sono fondamentali per evitare che il difficoltoso avvio di campionato travolga i molti giovani rossoblù all'esordio nella massima serie. Addirittura Eraldo, nonostante le 33 primavere, torna in campo 11 giorni dopo un'operazione al menisco (un record per l'epoca) ed è costantemente tra i migliori in campo del Bologna.
L'anno successivo Maifredi opta per un centrocampo più dinamico e muscolare, che non prevede la figura del regista classico, e per Pecci non c'è più posto. Al mercato autunnale viene ceduto al Vicenza (in C1) ed Eraldo accetta il trasferimento perchè l'allenatore dei biancorossi è il suo amico Romano Fogli. Dopo pochi mesi però Fogli viene esonerato e Pecci decide d'interrompere la carriera di giocatore senza nemmeno terminare la stagione.
Nel dopo calcio Pecci è anche curatore fallimentare del Bologna nel 1993 e in seguito general manager rossoblù, ma solo per pochi mesi.
Ora è un brillante volto della tv, sempre pronto con la sua simpatia a ravvivare trasmissioni e telecronache calcistiche sparando battute e freddure, a volte molto divertenti.

Sergio "Buster Keaton" Buso





Sergio Buso fù la grande rivelazione per noi quattordicenni tifosi del Bologna FC.


Sconosciuto ai più che non conoscevano Padova, Sergio partì da dietro, per giocare, infine da titolare. Parò un tot di rigori in quell'anno (tra cui uno al mitico Gigggi Riva) e divenne subito un mito.


Da allora, in cortile, fare il portiere non era più un'onta.



Era essere Buso.


Il massimo per un bolognese che giocava in porta nelle infinite partite da cortile.


Buso incarnò l'archetipo del giocatore professionista. Determinato ai massimi livelli, quasi scostante con i tifosi, Sergio si meritò il soprannome di Buster Keaton perchè non rideva mai. In compenso aveva un cervello che era un PC. Perchè Buso giocava con la testa imagazzinando dentro ogni dettaglio del suo avversario.


In quel campionato del 1974, il "giandone" che aveva sostituito il mitico Amos Adani (uno che faceva spogliatoio e che parava anche... benchè modenese) conquistò subito un posto nel cuore della curva che lo ringrazia con una prima pagina di QUI SPORT.


Non fece rimpiangere Vavassori (che era un grandissimo capace di prendere la palla in posizioni assurde, quarto migliore portiere italiano con concorrenti come Albertosi, Lido Vieri, Pulici, un giovane ma già grande Zoff, Superchi...ma... di non riuscire mai a parare un rigore) e uscì dal clichè del portiere matto ed artista che noi bolognesi abbiamo amato tanto.



A distanza di oltre 30 anni mi unisco oggi al coro:
GRAZIE SERGIO.
 
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